Archivio / Corsi e Laboratori

Lingua e dialetto in figura e letteratura

Visita guidata nei testi e nei capolavori del grande repertorio lombardo

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Lingua e dialetto in figura e letteratura

Visita guidata nei testi e nei capolavori del grande repertorio lombardo

In sette incontri una sorta di visita guidata nei capolavori dell’arte lombarda in figura e letteratura, in lingua e dialetto, dal 600 all’800, lì dove il dialetto è forma e contenuto, è prima di tutto un luogo della mente, dove albergano la pietà e la rivolta, dove gli ultimi della piramide del viver civile, i pitocchi, occupano per intero la pagina e la tela.

Gli incontri prevedono l’ascolto di alcune esecuzioni storiche del grande repertorio lombardo a cominciare dalle letture portiane di Franco Parenti, a cura di Dante Isella. Per la visione e la lettura dei capolavori pittorici sono previste due uscite nei luoghi in cui sono esposti: la Pinacoteca di Brera e il Museo Poldi Pezzoli.

Pressa poco come fa un critico d’arte che davanti a un quadro senza anagrafe si adopera a dargli un padre, a leggervi una individualità stilistica, per ogni autore in figura e in letteratura si sceglierà un testo e si proporrà una disamina e un angolo di visuale. Si cercherà di comporre una sorta di mappa e di dimostrare che nessuno di loro può fare a meno dell’altro. Che non ci sarebbe Alessandro Manzoni senza Carlo Porta, Carlo Porta senza Carlo Maria Maggi, senza Francesco de Lemene. E che la forza dissacratoria delle tele del Fra Galgario e l’umanità del Ceruti hanno il loro corrispettivo nelle pagine del Porta e del Manzoni.

 

 

Alessandro Manzoni, Carlo Porta, Carlo Maria Maggi, Fra Galgario, Giacomo Ceruti, Francesco de Lemene; sei grandi maestri per ripercorrere le ragioni, gli umori, le soluzioni stilistiche, la posizione morale, la lettura della storia della grande arte lombarda, riconoscerne l'unità di fondo e mostrare che il racconto dell'arte lombarda tra letteratura e arte figurativa, come scriveva Roberto Longhi, non è ancora finito e aspetta nuove scoperte e nuove modalità di frequentazione e di studio.

Carlo Porta (1775- 1821)

Il verso del Porta (l’endecasillabo, che è la misura da lui più usata, è un’unità ritmica riconoscibile fra mille, un segno individuatissimo che si tenterà di descrivere attraverso l’ascolto della esecuzione (2) di Franco Parenti a cura di Dante Isella. È un verso che poggia solidamente sui suoi elementi costitutivi. Un verso che scolpisce con forza inesorabile la dignità e la maestà di coloro che nella piramide del viver civile sono al fondo e che con altrettanta forza espressiva irride coloro che nella stessa piramide sono alla cima. Così il dialetto diventa la lingua del ribaltamento, della trasgressione. Così si compie la forza dissacratrice e liberatrice dei contenuti, l’opposizione di livelli dell’espressionismo linguistico di quel pastiche che il Porta seppe apprendere dal Maggi e lasciare come via di sperimentazione alla grande tradizione lombarda, che arriverà a Carlo Emilio Gadda e a Giovanni Testori.

(2) Recital Portiano a cura di Dante Isella negli anni 70 – A Milano con Carlo Porta

Di Carlo Porta si ascolteranno le Desgrazzi de Giovannin Bongee (1812): il primo dei personaggi popolani della poesia del Porta che si muovono sullo sfondo di una città dominata dagli stranieri, in una economia che segna forti sperequazioni fra il privilegio dei grandi proprietari nobiliari, la classe intermedia di impiegati e commercianti, il ceto popolare composto in prevalenza di piccoli venditori e artigiani. Il Bongee si sente contro tutti, perennemente vittima dell’ingiustizia sociale e della propria incapacità costituzionale ad affrontare la vita.

 

Carlo Maria Maggi (1630-1699)

Il Teatro milanese di Carlo Maria Maggi è nato e si è evoluto nel giro di quattro o cinque anni e durante l’ultima stagione dello scrittore: si fonda sul difficile rapporto tra un una forza morale premanzoniana e una natura individuale di poeta essenzialmente lirico. Lavoreremo sui testi dove l’autore non punta verso l’alto ma dove la scelta cade significativamente sui personaggi popolari: Lì dove il punto di vista del poeta, quello da cui è giudicato lo spettacolo delle miserie e delle debolezze umane non è più al di sopra o addirittura al di fuori della realtà, ma all’interno di essa; non coincide con la sfera linguistica dell’italiano e dei ruoli che incarnano una perfezione da manuale ma con la sfera del dialetto e del dialetto più genuino del popolo. La promozione di Meneghino da semplice comprimario a protagonista della commedia è la prova più evidente di questa posizione.

 

Francesco de Lemene (1634-1704)

La Sposa Francesca

Sembra che la storia di un matrimonio che s’ha da fare e che non si riesce a fare sia una delle trame più care al repertorio lombardo. Così La Sposa Francesca. – frutto squisito della più raffinata cultura letteraria tra barocco e rococò è una delle più belle commedie del nostro teatro – scritta al novanta per cento in dialetto lodigiano tratta gli intrighi, i modi, i costumi, i sogni del borgo natio di Francesco De Lemene. Non solo i piccoli nobili di provincia con smania e vanità da grandi ai quali poter guardare ormai con distaccata ironia, ma gli altri, la gente comune e più vera, che gli riusciva finalmente di vedere e di ascoltare con sorridente e partecipata comprensione. Anche e soprattutto per questa prospettiva del sentimento, La sposa Francesca appartiene agli stessi anni, rimanda alla stessa situazione culturale e morale in cui affonda le radici il teatro milanese del Maggi.

 

Giacomo Ceruti (1724 c.a)

La grandezza del Ceruti, inedita a quei tempi e per la verità non molto edita neppure dopo, fu d’aver compreso che la turba infetta, mendicanti a brandelli, gaglioffi e storpi di villa, soldatacci stranieri come bazzicavano in Lombardia al tempo delle guerre di successione, ragazzi di strada che taroccavano a cavalcioni sulle ceste, i lavandai alla fontana, la cucitrice che s’affaccia alla finestra con i riccioli nelle forcinelle, la fantesca ferita. non avrebbe potuto esistere nella sua derelitta grama e indigente pienezza altrimenti che trasferendo nell’arte insieme a sé, la completa prospettiva della storia e della società in cui tirava o strascicava innanzi la vita. Che il suo apparire all’espressione con una totalità cosi incondita e ferma sarebbe stato un memento insomma rivoluzionario, capace di andare a fondo del vivere, restituire alla turba infetta la maestà e la dignità di quelli che nella piramide del vivere stavano alla cima e capace in questo modo di ribaltar la storia. Entro questa prospettiva non solo mostrò di rispettare la verità storica e sociale del tempo, ma altresì di cogliere la verità lenta inarrestabile e fluviale dell’esistere intero. E così Ceruti fonda attraverso le tele quei sentimenti di pietà e di rivolta che poi dritto andranno a finire nel romanzo manzoniano.

 

Fra Galgario (1655-1745)

Le lacche del Ghislandi, oltre a essere quelle meraviglie di pittura che sono risultano il correlativo già roso e demistificato, già trapassato insomma dell’umana ingiustizia e bestialità; il correlativo delle materie formali proprie della nobiltà: E perché meravigliarci se dalla dissacrazione che van compiendo, quei linguaggi trattengono di volta in volta, insieme alla ferocia dei graffi e delle unghiate, il baluginio proprio agli umani tramonti. Scrive Testori: – La golosità con cui s’era avvicinato e con cui aveva fagocitato la società del suo tempo legittimava che il suo giudizio nel quale come in una morsa definiva e suggellava ogni ritratto, prendesse talvolta la luce della spietatezza; anche perché quella golosità era ben pagata dalla forza con cui aveva coinvolto dentro il pasto, anche sé stesso: la sua natura, la sua vita; i suoi segreti; la sua luce; e le sue lunghe e vergognosissime ombre. Così quella che s’è voluta chiamar carità è invece muta, virile e certo cristiana consapevolezza delle magagne della natura di quelle della società; ma anche ancor prima è il senso fieramente drammaticamente cattolico del limite, anzi per dir tutto della finitezza. In questo anche l’esperienza del Ghislandi va a situarsi nella grande, drammatica storia del cattolicesimo lombardo su cui si fonderà il romanzo manzoniano. Anche se, diversamente da quanto accede nel romanzo manzoniano non si riesce a sostenere che la speranza del risarcimento della Provvidenza nella pittura del Ghislandi si mostri molto certa. Perché per quanto s’intrufoli, scenda e precipiti la brezza rammemorante della colpa non sembra riuscire al suo scopo, che è quello di far tornare ognuno al suo posto. Cioè la gallina nel pollaio, la donna alla casa, l’uomo, poniamo il mercante nel suo palazzo o nella gran fiera di Sant’Alessandro.

 

Alessandro Manzoni (1785-1873)

“I provocatori, i soverchiatori tutti coloro che in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora cui portano gli animi degli offesi” entro questa disposizione, riferita a Renzo che arrivato a Milano durante la peste mette mano al coltello, si proporrà la lettura del capitolo trentaquattresimo de I Promessi sposi, (l’entrata in Milano di Renzo durante la peste per raggiungere la casa di Don Ferrante) lì dove trovano la soluzione più alta e profonda quei sentimenti di pietà e di rivolta che si avranno già individuato nella tradizione precedente. Secondo la lezione di Dante Isella la lettura Manzoniana i farà anche alla luce della esperienza del Porta.