Archivio / Teatro

Kaddish

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Kaddish

Teatro e poesia. Un binomio che Ferdinando Bruni ha già sperimentato in spettacoli come Una stagione all’inferno, Una serie di stravaganti vicende, rimasti nella memoria di molti spettatori.

Dopo Rimbaud, Salinas e Poe, Bruni si mette alla prova con le parole di Allen Ginsberg, autore dallo stile anticonformista, non aulico e intimistico che riuscì, forse, a trarre i risultati più puri e interessanti dell’esperienza della “Beat Generation”.

Kaddish, testo in cui il poeta ha messo a nudo la propria anima, è una meditazione sulla morte della madre dell’autore scritta sotto l’effetto di anfetamine. La poesia di Ginsberg trova espressione in un verso che prende a modello la cadenza delle libere variazioni jazz di Charlie Parker, del bebop e della ritualità ebraica.

Nella messa in scena di Francesco Frongia la poesia diventa terreno ideale di incontro tra la musicalità della parola e la musica vera e propria e fondamento di uno spettacolo che si fa concerto.

Ginsberg stesso parla, a proposito dei suoi testi, di vocalizzazione musicale, canzoni, poesie sonore capaci di offrirsi “come qualcosa da utilizzare per la propria vita”. Bruni asseconda la struttura poetica originaria, il variopinto gioco vocale, l’intensità dell’iterazione, le ossessioni visionarie della poesia di Ginsberg fondendole alla ricerca di un nuovo spazio per la comunicazione che ridia senso, valore e peso alle parole, sottraendole all’usura della banalità quotidiana.

Un urlo che diventa grido disperato, lamentazione dolce e dolente nel kaddish per la madre morta in manicomio, “avvelenata d’immaginario”. E qui Bruni riesce a svelare le molteplici forme di questo canto d’amore, ora romazo, ora dramma, ora rabbiosa orazione, ora inno, ora tragedia.
Magda Poli - Corriere della Sera